Oggi si conclude ottobre, mese in cui si celebra la giornata mondiale della salute mentale. Ogni 10 ottobre, infatti, si susseguono conferenze ed eventi dedicati all’informazione e alla sensibilizzazione sul tema dei disturbi psichici. A livello mediatico, fioccano post, articoli e servizi televisivi con lo scopo dichiarato di combattere lo stigma legato ai problemi di salute mentale.
Sono gli stessi media, però, a portare avanti una narrazione imprecisa e sensazionalistica ogni qual volta avvenga un fatto di cronaca nera che interessa soggetti affetti da disturbi psichiatrici, dando voce a opinioni reazionarie e stigmatizzanti, che alimentano l’idea che chi soffre di tali condizioni sia intrinsecamente “pericoloso a sé e agli altri” – la vecchia formula con cui si internavano le persone in manicomio – e pertanto vada allontanato dalla società.
Esiste anche un’altra faccia della narrazione in tema di salute mentale che cozza con i messaggi positivi sbandierati nelle giornate mondiali, e che abbraccia tutte le forme del disagio mentale, dalle sue forme francamente patologiche fino alle angosce che attanagliano tutti coloro che vivono all’interno della società contemporanea: è l’essere considerato un buono a nulla.
Questa espressione dà il titolo a un breve testo di Mark Fisher, scrittore inglese morto suicida nel 2013.
“La mia depressione è stata sempre collegata alla convinzione che ero letteralmente un buono a nulla”, scriveva Fisher. “Anche quando sono stato ricoverato in un reparto psichiatrico, mi dicevo che non ero veramente depresso – stavo solo fingendo di esserlo per evitare il lavoro, o nella logica infernale e paradossale della depressione, nascondevo il fatto di non essere in grado di lavorare, e che per me non c’era alcun posto nella società.”
Si potrebbe dire che non è inusuale, nella Depressione Maggiore, la svalutazione di sé. Tuttavia, i vissuti di ansia e inadeguatezza si moltiplicano nelle persone senza che intervenga una diagnosi formale a giustificarle.
Fisher fa un passo oltre: individua il nucleo psicopatologico di quest’angoscia non nella chimica del cervello o nei rapporti familiari, ma nelle aspettative che permeano la nostra società, e che soffocano chi non è in grado di soddisfarle.
Viviamo in un mondo in cui l’efficienza e il successo sono diventati un imperativo morale: ciò che si fa non basta mai, e viviamo nell’angoscia di non essere abbastanza bravi, abbastanza studiosi, abbastanza produttivi. Questa mentalità si riflette nell’università come nel lavoro, e si accompagna a una sofferenza diffusa che però non può essere ammessa: avremo anche chiuso i manicomi, ma ci circonda ancora il muro che ci impedisce di esprimere il nostro disagio, perché questo significherebbe confessare di non farcela, e di non essere dei vincenti.
In un mondo in cui il valore di un individuo spesso viene calcolato in base alla sua utilità, non stupisce che chi soffre di un disturbo psichico sia un reietto: è considerato incapace, non produttivo, e dunque non degno di partecipare alla comunità. Lo stigma verso i problemi di salute mentale passa anche da questo.
Questi elementi però esistono anche all’interno di ambienti professionali in cui intervengono pesantemente dinamiche di competitività e aspettative di performance sempre maggiori, uniti a una buona dose di stigmatizzazione nei confronti di chi non vi si adegua. Uno fra tutti, come ci confermano i dati in materia, è proprio quello medico e sanitario. I professionisti sanitari vivono una maggior incidenza di ansia, depressione, burnout rispetto ad altre categorie fin dagli anni dell’università. Tali dati dovrebbero far riflettere sulle cause strutturali di un malessere così diffuso; invece, la tendenza è colpevolizzare il singolo – escludendolo, etichettandolo come debole o pigro, “pericoloso” per la tenuta del sistema.
La paura di parlare di salute mentale, dunque, non passa solo dalla paura stigmatizzante di chi soffre, ma dal timore di guardare in faccia le responsabilità che abbiamo come società e di riconoscere i processi che ci rendono progressivamente più soli, impoveriti e schiacciati da un modello di “normalità” che fatichiamo a esaudire, sentendocene tutta la colpa sulle spalle.
Appare quasi più rassicurante rifugiarsi nel creare mostri, o indossare maschere per cercare di non essere riconosciuti come possibili ingranaggi rotti, da deridere o da eliminare.
Oggi termina ottobre, mese che vede susseguirsi la giornata mondiale della salute mentale e Halloween. Concludiamo questo mese svestendoci dei costumi troppo stretti di sanismo ed efficienza che ci hanno cucito addosso, e riprendiamoci il diritto ad attraversare ambienti di vita, relazioni e lavoro sani e che promuovano un benessere psicofisico reale e non solo di facciata.